Grinta, Coraggio, fantasia. Così quattro giovani hanno vinto la loro sfida: conquistarsi “un posto al sole” nella Grande Mela.

Meno di trent’anni, meno di duemila dollari al mese. Camera e cucina a Brooklyn o al Village, un posto di lavoro precario a Midtown, nella City, e tanta voglia di affermarsi. Con la consapevolezza di essere italiani a New York vuol dire avere una marcia in più. Non sono tanti i connazionali “in carriera” nella Big Apple, ma la loro presenza, nelle aziende, nelle università, nei quartieri dove vivono, non sembra passare inosservata. Arrivano negli States per un lavoro stagionale, che qui definiscono “internship”, o uno stage nelle aziende americane o una summer session alla Columbia University o alla New York University e cominciano a guardarsi intorno. Dopo una settimana si sentono già padroni della città: ne puoi incontrare a decine passeggiando nel rettangolo di Manhattan, o in una delle infinite stazioni della metropolitana, Uptown, Midtown, Downtown… Nella share hour, l’ora di punta, si mischiano ai newyorkesi doc per le strade della City, nei bar o sui bus. Poi, la sera, si trasferiscono nei quartieri più di tendenza della città, per bere una cosa, incontrare gente, andare a un party. A Soho, a Tribeca, nel Meatpacking District, nell’East Village: qui la geometricità di Midtown si spezza nelle stradine irregolari dove l’atmosfera è tutta da scoprire, con pub, piccoli ristoranti e bistrot, che si alternano a eleganti case di foggia inglese. “Questa città ci fa sentire importanti” sostengono i giovani italiani in trasferta newyorkese. Perché? Lo spiegano a Gioia queste quattro testimonianze di “conquista” della Grande Mela. Danzando sotto le stelle (e le strisce)

Benedetta Capanna, coreografa e poetessa. “Sono arrivata a New York a passo di danza”. Esordisce così Benedetta, 28 anni, che studia ballo classico e danza moderna da quando ne aveva sei. Il suo sogno americano si chiama Alvin Aiely: “Volevo conoscerlo, per seguire la sua scuola di coreografia”. E’ a New York da tre anni… “Non conoscevo nessuno, avevo con me solo una lista di indirizzi di scuole di danza”. Inizia subito a frequentare l’ambiente delle dance school, degli spettacoli e dei gruppi indipendenti. “Ho cominciato insegnando danza, lavorando nel teatro di ricerca. Ma la cosa più importante è che mi sono sentita completamente libera, anche se guadagnavo poco e mi mantenevo a stento.” A Brooklyn ha lavorato con artisti di mezzo mondo e in produzioni italiane, spagnole, americane: Matthew J.Garrison, il Kairos Italy Theatre e il Vertical Player Repertory di Judith Barnes. “E pensare che c’era un’insegnante dell’Accademia che mi diceva: cosa vieni a fare a lezione? Tanto non ballerai mai1”. Benedetta rammenta di essere stata salvata da un sogno: “Stavo su un palco e volevo ballare. Ero nuda e legata con delle catene invisibili, non riuscivo a spezzarle. Quando mi sono svegliata, ho detto a me stessa: devi ricominciare da capo.”… A New York ha iniziato a scrivere poesie e ad interpretarle danzando. Così, la scorsa estate, ha debuttato all’Henry Street Settlement con una coreografia: Parallel Lives, theatrical, poetic dance experience, ovvero un esperimento teatrale di poesia e danza. La sua performance ha avute buone recensioni sui giornali di Manhattan e pagine intere su America Oggi, uno dei quotidiani degli Italiani negli Usa. “E’ stato incredibile: danzavo da sola sul palcoscenico interpretando una mia poesia e il pubblico applaudiva.” Adesso il suo piccolo regno si trova a Brooklyn, dove vive e lavora “Ma non voglio raccontare una favola” conclude Benedetta “questi anni sono stati molto faticosi, fatti di impegno, di studio, di forza di volontà, disciplina per mantenermi in forma. Certo, sono contenta, adesso ho nuove proposte di lavoro, ma soprattutto tanti progetti da realizzare.”

 

Di Loredana Oliva – Gioia, 2000